La Tartaruga Rossa – Recensione
Dopo il successo conclamato alla scorsa edizione del Festival di Cannes (con relativa conquista del Premio Speciale Un Certain Regard) e sull’onda della nomination agli Oscar 2017 come Miglior film di animazione, il lungometraggio d’esordio di Michaël Dudok de Wit approderà nelle sale italiane, per una distribuzione BIM, con un evento speciale previsto per le giornate del 27, 28 e 29 marzo.
Trattasi della prima coproduzione internazionale per lo storico Studio Ghibli, che ha visto affiancare all’animatore olandese De Witt (Oscar al miglior cortometraggio d’animazione 2001 per Padre e figlia), nientemeno che il maestro Isao Takahata (Una tomba per le lucciole, La storia della principessa splendente), qui nelle vesti di consulente artistico.
“Il film racconta la storia in maniera lineare e circolare utilizzando il tempo per parlare dell’assenza di tempo, un po’ come la musica può mettere in rilievo il silenzio”, sostiene il regista. “È un film che racconta anche come la morte sia una realtà. L’essere umano tende ad opporsi alla morte, a temerla, a lottare per scagionarla e si tratta di un atteggiamento molto sano e naturale. Eppure contemporaneamente si può avere una bellissima comprensione intuitiva del fatto che siamo pura vita e non abbiamo bisogno di opporci alla morte.”
La Tartaruga Rossa esordisce come il più classico dei racconti alla Robinson Crusoe: un uomo, la cui identità in questo caso è e resterà a noi sconosciuta, approda trascinato dalla forza della marea sulla spiaggia di una sperduta isola tropicale.
L’uomo, fronte alla solitudine, si ritroverà ben presto a fare i conti con una natura a lui ostile, transfigurata nell’immagine di una creatura enigmatica, la tartaruga rossa del titolo per l’appunto, impegnata a sabotare ripetutamente i tentativi dell’uomo di abbondare l’isola. Le sorti del naufrago cambieranno quando la creatura verrà ritrovata, inerme e morente, ai margini della costa e, spezzata la carapace, da essa prenderà vita una donna dalla lunga e fulva chioma.
Mescolando un pizzico di CGI ad un’animazione realizzata perlopiù a mano con il ripiego ad acquerello e carboncino, De Witt e Takahata compongono immagini dai contorni romantici in cui figure e volti stilizzati vengono sommessi alla maestosità ed al fascino di una natura primordiale dall’aura sacrale. Svolgono in questo senso un ruolo fondamentale le musiche realizzate da Laurent Perez Del Mar che forniscono ritmo ad una storia essenzialmente priva di dialoghi in cui focale risulta essere la natura, con i suoi silenzi ed i suoi rumori.
Temi cari alla tradizione Ghibli, quelli del rapporto uomo-natura e del simbolismo veicolato dalle immagini; ma la riflessione che de Witt porge allo spettatore valica i confini della bonaria invettiva contro le società moderne, ricorrente nelle produzioni dello studio giapponese.
L’innamoramento, la genitorialità, le liti da vita di coppia e, infine, la morte sono tutte tappe del ciclo della vita umana. Oltre ogni possibile allegoria e simbolismi vari, l’amore quale ultimo baluardo per la salvezza dell’uomo contemporaneo.
Per ulteriori info circa l’evento e le sale coinvolte: www.latartarugarossa.it.
Alex Zambernardi
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