Oscar per l’animazione a Flow: due motivi perché sì, due motivi perché no

Presentato in anteprima al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard e poi vincitore del Golden Globe per il miglior lungometraggio d’animazione, Flow, l’ultimo film del regista lettone Gints Zilbalodis è stato la vera rivelazione degli Oscar 2025. Candidato a ben due categorie (miglior film d’animazione e miglior film internazionale) si è aggiudicato l’ambita statuetta battendo colossi come DreamWorks per Il robot selvaggio, Disney Pixar per il sequel Inside Out 2 e Aardman (questa volta in collaborazione con Netflix) per l’intramontabile saga di Wallace e Gromit. Niente da fare invece per l’altro outsider presente in cinquina, l’australiano Memoir of a Snail di Adam Elliot, che aveva invece trionfato al Festival internazionale del film d’animazione di Annecy portandosi a casa il Cristal Award.

Cinquina oscar animazione

Insomma, un vero colpo di scena la vittoria di Gints Zilbalodis che va a costituire un precedente importante nella storia degli Academy Awards. Dal 2002 infatti, anno in cui venne istituita una categoria apposita per i film d’animazione, la statuetta non era mai stata consegnata ad una produzione indipendente a così basso budget e per giunta europea. Per capire meglio di cosa stiamo parlando basterà fare qualche calcolo. Negli ultimi 23 anni il premio Oscar è andato ben 15 volte alla famiglia Disney Pixar, una volta alla DreamWorks (Shrek), una volta dalla Warner Bros. (Happy Feet), una volta a Sony (Spider-Man – Un nuovo universo), una volta a Paramount Pictures in collaborazione con Nickelodeon (Rango) e infine una volta a Netflix per il Pinocchio di Guillermo del Toro. Fuori dalla giurisdizione dello Zio Sam, troviamo solo la doppia statuina al maestro Hayao Miyazaki (La città incantata e Il ragazzo e l’airone) e la vittoria nel 2006 della casa di produzione inglese Aardman per Wallace & Gromit – La maledizione del coniglio mannaro (in ogni caso all’interno di una co-produzione DreamWorks). Fino ad ora, quindi, il muro di gomma delle produzioni mainstream non era mai stato abbattuto, neanche dai capolavori dell’irlandese Cartoon Saloon (sempre candidata e sempre derubata) o da lungometraggi di indiscutibile valore come Persepolis, La mia vita da Zucchina, Loving Vincent e Dov’è il mio corpo.

Gints Zilbalodis

Cos’è successo quindi agli Oscar 2025? Di cosa ha potuto beneficiare quest’anno Gints Zilbalodis che in altri anni sarebbe stato impossibile? Difficile dirlo con precisione, sono tanti i fattori che stanno trasformando il mondo del cinema d’animazione negli ultimi tempi, dagli importanti sconvolgimenti ai vertici delle major al ridimensionamento delle produzioni ad alto budget per favorire i prodotti da streaming. In ogni caso, al di là delle scelte dell’Academy, Flow è indubbiamente particolare e probabilmente unico nel suo genere. Ma questa sua originalità è sufficiente per decretarlo “best animated feature”? Difficile dirlo. C’è tanto del film che convince ma anche tanto che lascia insoddisfatti. Facciamo due riflessioni per il no e due per il sì.

LA TECNICA

Per vincere un premio Oscar serve presentare il più alto livello tecnico in circolazione? Non c’è una risposta secca a questa domanda. Diciamo che, se da una parte è pur vero che non si tratta di una legge scritta sulla pietra, dall’altra è innegabile che la strada tracciata negli ultimi anni sia andata proprio in questa direzione. Dall’incantevole 2D di Hayao Miyazaki alle prodezze del 3D Disney Pixar, passando per lo sperimentalismo della Sony, un film di livello tecnico medio non era mai arrivato neanche solo a sfiorare la statuetta degli Oscar. Succede invece con il lungometraggio di Zilbalodis. A fronte dei solo 3,7 milioni di dollari di budget, Flow è un lavoro che punta al minimo sforzo e al massimo risultato. Per farlo si affida chiaramente a Blender, software gratuito e open source in grande ascesa, già utilizzato per film di altissimo livello (tra cui il nostrano Gatta Cenerentola). Ma il risultato è del tutto soddisfacente? In parte. L’ambientazione è davvero incantevole, poetica, misteriosa e soprattutto comunicativa, perfettamente aderente allo stato d’animo dei personaggi e in grado di trasmettere allo spettatore le emozioni dei protagonisti, passando da ambientazioni luminose e solari a contesti bui e inquietanti. E poi c’è il vero fiore all’occhiello di Flow che è l’incredibile capacità di gestire una materia complicata come i fluidi per tutta la durata del film (senza il budget di Oceania). Insomma, tutto molto bello. Ma quindi cosa non convince? Flow è un lavoro che dedica poca attenzione ai personaggi protagonisti. Se da una parte tanta cura è riservata al gattino, minore impegno è stato riservato agli altri animali che hanno modelli semplificati (quasi stilizzati) e un’animazione base che non ci si aspetterebbe da un film premio Oscar. Una scelta voluta – come dichiarato dal regista intervistato dalla rivista Framed – per dare vita a personaggi “incompleti” in grado di catturare di più l’attenzione dello spettatore. Scelta legittima ma forse resa finale non del tutto aderente alle aspettative.

Flow dogs

IL SIMBOLISMO

Flow è indubbiamente un’opera che colpisce per la sua componente simbolica. Nulla di quello che accade è spiegato allo spettatore. È un film molto misterioso, che da una parte gioca a presentare una trama tutto sommato semplice, dall’altra dissemina l’intreccio di immagini ricorrenti, oggetti strani e personaggi suggestivi, dietro i quali si avverte una carica di magia e allegoria sempre crescente nel corso della visione. La curiosità è portata all’apice nel momento dell’epilogo del film, quando lo spettatore ha la sensazione che tutto troverà la sua spiegazione. E invece niente. Sul finale Zilbalodis tira sì le fila della trama principale, ma non concede nulla al resto. Nessun enigma viene rivelato, nessun significato segreto viene alla luce. L’impressione che ne deriva è che Flow sia un film che gioca a farsi rincorrere senza farsi prendere. Gli oggetti e i personaggi arcani che tanto tengono viva l’attenzione si rivelano infine sfingi senza segreti, e la componente di mistero sfocia in una chiusura ermetica che lascia insoddisfatti.

INDIVIDUO E GRUPPO

Il rapporto tra individuo e gruppo è centrale nel film e ne rappresenta il vero cuore semantico. Ma se all’apparenza si tratta di una tematica inflazionata, ad una più attenta analisi il messaggio che ne deriva è particolarmente forte e di rottura. All’avvio della storia il gatto protagonista si trova in una condizione di solitudine e isolamento in cui però è perfettamente a suo agio. Fin dalle prime sequenze vediamo che il contesto in cui vive è fondamentalmente “gattocentrico”: la casa in cui ha dimora è piena di rappresentazioni di gatti, disegni di gatti, statuette di gatti e anche il mondo esterno non è da meno dal momento che vi si trovano imponenti sculture feline. Con queste premesse, non si fatica a immaginare che il gatto non sia naturalmente portato ad accogliere il diverso da sé. Ed è infatti solo l’imminente alluvione che lo costringe a rapportarsi a creature diverse da lui (un uccello, un capibara, un cane e un lemure). Se il primo animale che incontra, il capibara, è a sua volta solo, gli altri animali sono invece individui facenti parte di un gruppo. Ma il gruppo, inteso come insieme precostituito di individui aventi caratteristiche identiche, non è affatto un concetto positivo all’interno del film. Lo stormo di cui fa parte l’uccello, ad esempio, è un gruppo solido, ben organizzato e in grado di trasmettere sicurezza, ma è anche un posto al cui interno non è previsto il dissenso: chi si oppone alle scelte del capobranco viene neutralizzato e lasciato indietro. Altra compagnia che ci viene presentata è quella dei cani: gruppo meno negativo del precedente ma evidentemente tenuto insieme da una consuetudine senza affetto. E infine il branco di lemuri i cui membri, a fine viaggio, si riuniscono al solo scopo di trascorrere il tempo ad ammirarsi in silenzio attraverso uno specchio, invece di interagire tra loro. Da tutte queste esperienze ne deriva un messaggio chiaro e il film va dritto al punto nel comunicarlo allo spettatore: agli individui a cui assomigli non importa nulla di te. I gruppi degli animali, che fuor di metafora ci ricordano i gruppi umani di natura etnica o religiosa, non sono un luogo sicuro. Il vero gruppo, quello che è disposto a proteggerti e a non lasciarti indietro, è quello composto da individui che si sono scelti accettando le proprie differenze. Centrale a questo proposito il simbolo dello specchio, oggetto di proprietà del lemure, che gli animali si strappano di mano l’un l’altro lungo tutto il viaggio, incantati unicamente dal proprio riflesso. A fine film lo specchio si rompe ma la comitiva è ora in grado di specchiarsi insieme nel riflesso dell’acqua.

IL MONDO CHE CAMBIA

Il mondo nel quale è ambientato Flow è un mondo davvero poco definito. Forse un mondo post umano ma certamente nulla di collocabile realisticamente in un luogo o in un tempo. Dal momento che la vicenda prende avvio da un evento disastroso (una forte inondazione) – come spesso accade da qualche anno a questa parte – siamo tutti portati a pensare che in qualche modo possa essere un’allusione al cambiamento climatico (interpretazione smentita anche dal regista in un’intervista a Cineuropa). La stessa versione italiana del titolo, che in lingua originale è semplicemente Straume (Flow) e nella nostra lingua diventa Flow: un mondo da salvare (con l’inevitabile e ineluttabile sottotitolo esplicativo di cui non ci libereremo mai), strizza l’occhio proprio a quell’immaginario. Ma il mondo che Zilbalodis delinea per i suoi personaggi è ben più originale. Non si tratta di un mondo perfetto che va riportato allo status quo, come neppure di un mondo nuovo da costruire. È un mondo magmatico, in perenne cambiamento, al quale è impossibile adattarsi e dove ogni azione è inutile perché nessuna nostra scelta può condizionarlo. L’unica scelta possibile è quella che l’individuo può fare su se stesso per reagire al cambiamento.