Le 5 fasi della sofferenza che attraversi dopo aver visto il Death Note di Netflix
Lavorare al live-action di un manga è quasi sempre una sfida ardua. Ancora più arduo è portare sullo schermo una storia già diventata un anime di successo. Scegliere poi una storia così delicata come quella di Death Note e darla in pasto a un pubblico così affezionato è come camminare a duemila metri di altezza passando da una cima all’altra di una montagna in equilibrio su una corda, senza la corda. Magari ci riesci, ma è più probabile che muori.
Qui una foto del regista Adam Wingard che si rende conto della pericolosità del progetto
Insomma, le difficoltà c’erano tutte e nessuno vuole negarlo. A questo si aggiunga anche la complessità di adattare una storia seriale a un film di un’ora e mezza, e di dover trasportare le dinamiche narrativo-descrittive tipiche del mondo manga al contesto realistico di un film in live-action. Ma qui il punto è un altro. Il lungometraggio prodotto da Netflix va di gran lunga oltre il brutto adattamento cinematografico. Rompe la barriera del ridicolo e finisce di prepotenza nella galassia dei film che non dovreste vedere neanche se vi minacciassero di «dire auf wiedersehen alle vostre palle». Ma come siamo arrivati a tutto questo? Com’è che Netflix ha deciso di spararsi su un piede mandando in vacca uno dei più celebri capisaldi del mondo nerd? Il fatto è che alla base di quel capolavoro che è la storia di Death Note c’è qualcosa che va oltre il semplice genere poliziesco, qualcosa che ha a che fare con una riflessione acuta sul rapporto tra bene e male che evidentemente non si era interessati a riproporre. Peccato, perché molto si sarebbe potuto dire se si fosse investito seriamente in un film in grado di porsi gli interrogativi del manga, tanto più nei tempi bui che stiamo attraversando. Ma ormai quel che fatto è fatto. Il Death Note di Netflix non è il film che ci meritiamo, non è il film di cui abbiamo bisogno, non è manco un film. E se siete rimasti anche voi sconvolti dalla sua visione tutto quello che possiamo fare è supportarvi nell’affrontare le cinque fasi del dolore che vi sta consumando.
Fase uno, NEGAZIONE: non possono aver rovinato così il personaggio di L
In effetti possono, e l’hanno fatto. Interpretato da Keith Stanfield, L è in questo lungometraggio un ragazzo afroamericano alto, bello e tonico. Forte quanto basta per darsi all’inseguimento di Kira nei vicoli della città e lasciarsi andare a scazzottate occasionali e acrobazie. La produzione ha talmente tanto compreso il personaggio di L che del ragazzino compulsivo e geniale della storia originale non è rimasto praticamente nulla, fatto a pezzi da una specie di super agente neanche troppo sveglio. A volte l’irriconoscibilità del personaggio è così palese che persino l’attore finge di ingobbirsi per rientrare un po’ nei parametri della decenza.
Fase due, RABBIA: perché Misa è il vero cattivo???
In tempi dove i film con eroine femminili sono vivisezionati e costantemente tacciati di femminismo, estremo femminismo, poco femminismo o maschilismo era decisamente troppo pensare che questo lungometraggio potesse imbroccare il personaggio di Misa. Del resto quando riesci a cannare persino i protagonisti tutto il resto è solo imbarazzo accessorio. Misa, qui interpretata da Margaret Qualley e rinominata Mia, è una bella e pericolosa ragazza suonata assetata di sangue che irretisce il povero Light e tra un bacio e l’altro lo spinge a fare cazzate tipo ammazzare tutto il mondo. Il risultato è un teatrino quanto mai fuorimoda (fuorimoda dai tempi dell’Eden) dove il protagonista maschile è tutto sommato ragionevole, mentre la ragazza è il demone tentatore. Frase top di Misa: «Ero una cazzo di cheerleader! La mia vita non aveva senza senso prima del Death Note». Ci sentiamo di chiedere scusa a nome della produzione a tutta la categoria delle cheerleader che sono, tra l’altro, validissime atlete.
Fase tre, NEGOZIAZIONE: tutto sommato il film non è male, gli attori sono bravi
È un buon modo per reagire al trauma subìto. La verità è che Death Note ha un gigantesco problema di produzione e nulla si può dire agli attori che bene o male recitano la loro parte portando a casa un risultato discreto. Il giovane Nat Wolff (Light) non ha certo colpa per essere anni luce lontano dalla fisionomia più confacente a Kira e tutto sommato se ne esce con qualche fotogramma ben riuscito in tributo agli sguardi agghiaccianti del Light giapponese. Buona performance anche di Lakeith Lee Stanfield (L), se l’obiettivo era impersonare un nuovo super eroe Marvel ci è riuscito alla grande. Speriamo di vederlo nel prossimo Avengers! Stesso discorso per la bella Sarah Margaret Qualley che alla fine del personaggio di Misa se ne sbatte e recita con tutto il drama che ha in corpo pronta a saltare sul primo treno per la Hollywood che conta. Tra l’altro alla Qualley tutto si può dire tranne che non fosse nel personaggio. Era perfettamente nel personaggio (il personaggio di Light, ma pur sempre un personaggio!). Il senso poi del Ryuk in cartapesta Carnevale di Viareggio style non lo abbiamo ancora colto.
Fase quattro, DEPRESSIONE: Light è snaturato e il messaggio stravolto
Se aveste la possibilità di essere un dio, cosa fareste? Era questo il semplice e allo stesso tempo profondissimo interrogativo alla base di Death Note. Quanto è difficile scegliere di rimanere uomini, rifiutare la possibilità di disporre di un quaderno per uccidere a piacimento e accettare i limitanti e spesso frustranti meccanismi della giustizia civile? Qual è il confine tra giustizia e vendetta, e chi decide questo confine? Light Yagami era un normalissimo ragazzo delle superiori quando scopre la possibilità di diventare un dio, e una volta assunto il ruolo di Kira, Light è quanto di più malvagio esista. Lontano dal ragazzino sempre incerto, un po’ confuso e condizionato del live-action, Kira era il male puro. Alle sue costole il bene: L, un ragazzino a cui la vita in effetti ha tolto tutto, malato e solo, ma sempre in grado di capire da che parte stare. Impossibile ritrovare tutto questo nel live-action di Netflix che è molto più simile a un episodio brutto di qualche remake di Spiderman. Inutile anche solo accennare all’assenza di Near.
Fase cinque, ACCETTAZIONE: poteva andare peggio
Siamo finalmente giunti al punto in cui ci facciamo una ragione di questo film. L’abbiamo aspettato, poteva essere un capolavoro, è andata male. Ma possiamo guardare il lato positivo, e rotolarci in quei begli omaggi ai fan più sfegatati. Tipo Ryuk che se ne esce a cazzo con «Voi esseri umani siete così interessanti», Misa che nei titoli di coda ha una gonna a ruota e L che ogni tanto infila le mani nelle caramelle. Tutto perdonato Netflix, poteva andare peggio. Potevi annunciare un seguito! (In che senso hanno davvero annunciato un sequel?)
FONDATRICE e DIRETTRICE – Laureata in Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Milano, ama le storie più di ogni altra cosa. Si occupa di letteratura, editoria e cinema d’animazione. Tra i suoi film preferiti “Coraline”, “Mulan” e “Meet the Robinsons”.
Citazione preferita: «Around here, however, we don’t look backwards for very long. We keep moving forward, opening up new doors and doing new things, because we’re curious… and curiosity keeps leading us down new paths». (Walt Disney)